domenica 13 marzo 2011

Storie di un vecchio molo

Mi chiamo Pier e sono un antico molo, un promontorio artificiale che l'uomo ha edificato per unire due elementi così dissimili come terra e mare.
Quante persone si sono accalcate su di me, quante sensazioni e sentimenti multiformi ho sentito scorrermi addosso.
Ho visto famiglie, costrette a lasciare la propria terra per cercare fortuna altrove, guardare la nave che li attendeva come un condannato aspetta la morte sul patibolo.
Sono stato attraversato da ragazzi in divisa armati di entusiasmo e propaganda, che nascondevano le proprie intime paure dietro a sorrisi forzati, regalati a persone care che non li avrebbero più rivisti.
Ho osservato facce stranite sbarcate in un luogo alieno, guardarsi intorno come esploratori approdati in un continente vergine e incontaminato.
Ho udito il triste lamento di bambini per un nonno che salpava per tornare a casa, consapevoli forse che non avrebbero più ascoltato i suoi splendidi racconti.
Le mie tavole di legno hanno contato milioni di passi, pesanti per il bagaglio ed un peso al cuore, gioiosi e leggeri per un viaggio romantico o semplicemente anonimi e impalpabili come quelli di spettatori indifferenti.
Fra tutte le migliaia di storie quotidiane che avrei da narrare ce n'è una in particolare che mi è rimasta impressa.
Ricordo una fredda mattina di dicembre.
Ero completamente deserto, avvolto come un sudario da una nebbia che celava completamente il mondo circostante.
Solo alcuni striduli lamenti di gabbiani laceravano il silenzio quasi religioso di un alba prossima a sorgere, ma riottosa a mostrarsi a sguardi indiscreti.
D'un tratto odo rumori soffusi provenire dalla terraferma ed un incedere di passi eleganti, sicuramente di donna.
Avvolta in un nero e caldo cappotto, perfettamente adatto alla sua figura, avanzava decisa verso il punto di approdo.
Il suo viso, incorniciato da lunghi capelli biondi, trasmetteva impazienza, accentuata da due splendidi occhi verdi che scrutavano ansiosi al di là della nebbia, verso il mare.
Mentre un lucore tanto tenue quanto quello di una lucciola in una brumosa sera d'estate si avvicinava dal mare, dalla parte opposta alcuni passi decisi si posavano sull'assito.
Nonostante la giubba pesante, si intuiva il fisico esile di un un uomo minuto, che avanzava con circospezione verso la sagoma bionda che fissava il muro di nebbia in trepida attesa.
Ed è stato allora che ho sentito.
Ho udito lo strazio in fondo all'anima di quell'uomo, echeggiare come un boato in una valle solitaria.
Ho sentito vibrare ogni singola tavola, percorsa da una struggente malinconia.
Non ero più legno e corda e chiodi, ma un fascio vivo di terminazioni nervose che acuivano la propria sensibilità via via che le due figure si avvicinavano.
Ed ecco il momento.
Furtiva come una faina, l'imbarcazione accosta bruscamente, trasmettendomi dolore per l'impatto.
Si intravvede un uomo alto, deciso, sicuro, che invita la donna a salire.
L'uomo minuto è ormai giunto a pochi metri da lei e la chiama con una dolcezza ed una tristezza che si annidano ancora in me e che il tempo non ha più rimosso.
Lei si volta, sbigottita, non aspettandosi questo fuori programma.
Per un attimo, ma non saprei dire quanto lungo, il tempo si è fermato.
Anche i gabbiani sono silenti, come se telepaticamente si fossero accordati sul rispetto dovuto al momento in atto.
I loro occhi si fissano intensamente e la loro vita sembra magicamente fluire dai loro corpi e proiettarsi sul telo di nebbia, come un cinematografo improvvisato, sicchè io ho potuto essere l'unico inanimato spettatore di quella drammatica rappresentazione.
Non so come (sono un molo... rammentate?), ma ho pianto.
E come dimenticare il finale...
Lui dichiara molto candidamente di amarla, con una sincerità così cristallina da annichilire la nebbia circostante, e lei, abbassando mestamente uno sguardo raggelante, si congeda con un semplice "mi dispiace", afferrando la mano dell'uomo a bordo e varcando così il limite del non ritorno.
In pochi attimi la sagoma della barca scompare alla vista lasciando l'uomo minuto solo col suo dolore.
Tutto è fermo, immobile, come in devota preghiera, in attesa che le lacrime possano fluire copiose e cadere con la forza d'urto di meteoriti scagliati dal cosmo più profondo.
Quando alcune di esse si sono schiantate sul pontile rompendo un silenzio innaturale, hanno portato con se il fragore del mare che si infrange sugli scogli nelle giornate di tempesta, il salmastro sapore dell'amore tradito, la potenza del tuono che diffonde lo strazio e la rabbia del lampo che squarcia la notte come un nero drappo troppo teso.
In ogni mio anfratto, attraverso i nervi scoperti, come olio bollente ho sentito scorrere l'amore, grande, unico, irripetibile e l'immensa sofferenza per la sua perdita.
Non so esattamente cosa sia, ma so con assoluta certezza che in quel momento ho provato pietà.
E a pietà si sono mosse anche forze che non saprei mai descrivere o rappresentare, ma che, statene certi, è meglio avere a favore che contro.
In un clima divenuto irreale, la nebbia si è infittita a tal punto da farmi perdere la consapevolezza di esistere, stringendo tutto in una plumbea morsa d'acciaio e proiettandomi in dimensioni del tempo e dello spazio che sfuggono ad ogni pensiero razionale.
Improvvisamente, come risvegliatomi da un lunghissimo sonno, non ho più sentito la presenza dell'uomo, ma ho percepito un flebile e serico fruscio d'ali materializzarsi sopra di me e volare verso il mare, rischiarato dal bagliore ambrato delle lanterne, schierate come un picchetto d'onore e accompagnato dal coro garrulo dei gabbiani, un melanconico ultimo requiem per un amore senza confini.

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